L’amore impuro, la leggenda dice,
fu per la congiunzione che a lei piacque:
per grave inganno da di lei nutrice,
Mirra più volte con il padre giacque.
Ma, quando al lume lui la figlia vede,
in odio si mutò l’amor carnale,
ché amor paterno a tanto non concede.
Raggiunse Saba, certa che immorale
gli dei ritengan il suo insano gesto
ed albero diviene profumato,
con, dentro sé, il frutto dell’incesto.
La dea Lucina accorre per l’evento
e nasce Adone bello e prepotente
cui Naiadi son le nutrici attente.
Note: Con quel misto di fascino (nell’indugiata e accorata descrizione dei sentimenti della fanciulla alla vicinanza del padre) e riprovazione (nei richiami infiammati al lettore per condannare l’impudicizia della vicenda) che costituisce il tono della sua elegia erotica, Ovidio descrive il tormento crescente di Mirra per un amore tanto intenso quanto impuro.
Ovidio avverte il lettore dell’empietà di cui sta per narrare che, per fortuna, riguarda una terra lontana il cui profumato incenso degli alberi, dice il poeta, non avrebbe dovuto meritare tanta sofferenza per essere prodotto.
Il voler mettere fine a questa angoscia conduce Mirra a tentare il suicidio impiccandosi, ma la fanciulla viene salvata in tempo dalla anziana nutrice. A seguito delle insistenze e delle preghiere della balia, Mirra rivela il suo amore straziante per il padre.
La nutrice, dopo aver giurato di aiutarla, propone a Mirra di sostituirsi nel letto alla madre Cencrèide. Questa, infatti, partecipando ai misteri in onore della dea Cerere (festeggiata in quel periodo dell’anno) faceva voto di astenersi dai rapporti sessuali.
E’lo stesso Cinira ad ordinare che Mirra venga condotta nel suo talamo, quando apprende dalla nutrice che una giovane e splendida vergine “dell’età di Mirra” spasima per lui, non immaginando che si tratti proprio della figlia. Mirra, turbata fra rimorso e desiderio, ma convinta dalla determinazione dell’anziana nutrice, fa l’amore con il padre.
La vicenda prosegue concordemente alla struttura narrativa già vista.
I due giacciono assieme per diverse notti fino a che Cinira, desideroso di vedere la sua amante, accende una lampada e si accorge della verità.
La fanciulla, gravida, abbandona la Pancaia per sfuggire dalle ire del padre che vuole ucciderla.
La fuga, a differenza delle redazioni precedenti del mito, si svolge senza sosta per tutto il periodo della gravidanza fino a che Mirra, già prossima a partorire, giunge, infine, nella lontana terra di Saba. Spossata, la ragazza ammette agli dei la propria colpa e chiede di essere bandita sia dal mondo dei vivi che da quello dei morti. Gli dei ascoltano la sua preghiera e Mirra, piangente, viene trasformata in un albero che stilla gocce di pianto profumato dalla corteccia nella descrizione piena di lirismo che ne fa Ovidio.
L’ultimo atto è la nascita di Adone, “creatura mal concepita cresciuta sotto il legno” (At male conceptus sub robore creverat infans), che cerca di uscire dalla prigione arborea in cui si è tramutata la madre che non ha voce per chiamare Giunone Lucina. La dea, impietosita, accorre comunque vicino all’albero, impone le sue mani sulla corteccia tesa e gonfia e pronunciando la formula del parto vi apre un varco. Dall’apertura esce un bellissimo neonato che viene subito preso in cura dalle Naiadi che lo ungono con le lacrime della madre.
Foto: La nascita da Adone dal corpo arboreo e sventrato di Mirra. Xilografia di Bernard Picart per illustrare Le Metamorfosi di Ovidio.