semplici.emozioni

Posts written by Ce lia

view post Posted: 6/5/2014, 16:43     Vorrei - Poesia

Vorrei,
vorrei sapermi riconoscere.

Non è questo il tono della mia voce,
né le mie voglie,
né i miei baci.

Aspetto.
Probabilmente tornerò.

Ora la testa mi dice che è ora
di andare ad alzare le finestre,
di lavare le tazze, sistemare i miei fogli,
di attaccare nell’armadio i miei vestiti.

La testa stabilisce
ma le gambe non vogliono obbedire.

Forse non possono,
forse non sanno.

Non è questa la mia mente che conosco,
né le mie voglie,
né le mie decisioni.

Davvero ancora aspetto qui seduta.
Presumibilmente tornerò ad essere ciò che sono stata.



Vorrei che la mia Sclerosi Multipla scomparisse!
view post Posted: 4/5/2014, 19:28     ALTRO DA ME - Ce lia

ALTRO DA ME






È la città dove tutte le parti si congiungono, le scelte si bilanciano,
dove si riempie il vuoto che rimane tra questo che ci si aspetta dalla vita e quello che ci tocca?
(Italo Calvino, La taverna dei destini incrociati)












INDICE dei capitoli


I La caduta p.3

II La ricerca p.6

III La scoperta p.9

IV Le prime cure p.11

V La mutazione p.13

VI Lo scacco p.16

VII Ti posso chiamare mamma? p.20

VIII Il riconoscimento p.24


I
La caduta

Itaque cum celeritate temporís utendivecocítate certandum est
et velox torrenti rapido nec semper ituro cito hauríendum
(Seneca, De brevitate vítae, IX, 2)

(Il tempo non può costituire un possesso la sua essenza sta nell'essere fuggitivo e perciò bisogna subito servirsene con prontezza, gareggiare con lui in velocità. Il tempo della vita di ciascuno di noi è come un torrente che scorre trascinando via tutto con sé.)


Nina caracollò senza grazia giù per la discesa.
Era un pomeriggio ventoso di febbraio; in una strada privata, senza passanti intorno. Non c'erano stati urti, né lei aveva fretta, c'era stata solo quella pendenza maledetta della strada, solo l'aver scordato di essere in balia dei cortisone, fatto due giorni prima in ospedale, per via intertecale.
Mentre piombava giù veloce e inelegante riusciva solo a cercare di fermarsi; si buttò contro un'auto parcheggiata e solitaria e per un istante si aspettò il boato di un allarme, non ci fu, ma la frenata brusca non riuscì a bloccarla.
Stava ancora crollando giù, ora pensava solo ad evitare i gradini della rampa di scale al suo fianco, era ormai certa che avrebbe sbattuto la testa a terra, dunque era indispensabile riuscire a schivare quei terribili scalini.
Quando finalmente la sua involontaria e spaventosa corsa ebbe fine, Nina, col viso sull'asfalto, pensò a quanto sarebbe stato meglio se fosse scesa con calma dalla scala, anche se era curva e senza mancorrente, pensò anche alla vergogna di essere lì a terra, improvvisamente circondata da clienti e lavoratori dello studio fotografico li vicino.
"Signora s'è- fatta male?" Strano era sentirsi dare della Signora quella sera, in quel luogo e da degli sconosciuti. Che avesse trentasette anni e che fosse sposata era una realtà inconfutabile, ma che allora si sentisse "piccola" e sola era ugualmente vero.

La scala evitata le stava ricordando il tempo in cui, uscendo dalla scuola giovane insegnante, faceva i passi brevi, ad ogni scalino si fermava, come una vecchietta, o si metteva sottobraccio ad un'alunna della sua classe, un'affidabile e affettuosa allieva di Scuola Media.
Qualcuno le stava porgendo disinfettante e cerotti, il sangue colava copioso dal suo sopracciglio.
"Ce la fa ad alzarsi?" le stava chiedendo qualcuno. "Si, un minuto ... devo andare a lavarmi la faccia".
"Ma pensi di farcela?" le stava chiedendo il fotografo, stupito che la signora per terra fosse lei e preoccupato di non sapere bene cosa fare, offrendole il suo braccio per sollevarsi.
Il fotografo era Antonino, papà di una sua ex alunna, che Nina aveva conosciuto qualche anno prima a Santa Marinella, dove trascorreva le vacanze in una villa accanto a casa sua.
Nina non insegnava più nella stessa Scuola, eppure Valentina e la sua famiglia avevano accolto con entusiasmo l'amicizia che si era andata creando tra loro.
A Valentina, la ragazza, non era parso vero poter conoscere la sua docente di lettere sotto un'altra luce: scherzava, chiacchierava, mangiava il gelato in giardino, fumava, chiedeva notizie di suoi amici, compagni di scuola...
Anche suo marito era diventato un amicone in quella famiglia. Presero ben presto a darsi dei tu. Valentina no, la Torcacci era lo stesso la sua insegnante di lettere, anche se mamma e papà la chiamavano Nina, e chiamavano Fiorenzo suo marito.
"Ti accompagno ai servizi qui al laboratorio" le disse Antonino.
Camminare sottobraccio e con cautela la faceva vergognare. Soprattutto perché, oltre che sentirsi goffa, sapeva di essere imbrattato e aveva il sangue che le colava sulla faccia.

Erano mesi che Nina non si truccava, quella sera era riuscita a farlo con propria stupore e meraviglia.
Le era sempre piaciuto imbellettarsi, anche se con discrezione, senza esagerare. Ora non poteva più. La sua mano non era più abbastanza ferma neanche per mettersi il rossetto, la matita o il rimmel sulle ciglia. Non era questa, ovviamente, una cosa importante. Faceva però parte di una serie di piccole inabilità sopraggiunte nei giorni, nei mesi, negli anni...
E certo più seccante non poter suonare più la chitarra, non riuscire ad usare la bicicletta, né uscire dal mare dopo aver fatto il bagno, intrecciarsi i capelli, scrivere, usare il computer con disinvoltura, tagliare la carne, sollevare e riporre sul tavolo apparecchiato un bicchiere colmo d'acqua, fare una corsa per prendere un autobus, attraversare veloce una strada, guidare l'automobile...
Tutte cose che molti non fanno: c'è chi non sa suonare la chitarra, non sa andare in bicicletta, né nuotare, porta i capelli corti, appunta solo qualche numero o indirizzo, non possiede un computer, non prende autobus, attraversa di proposito lentamente, non ha mai preso la patente.
Eppure Nina non era così. Aveva imparato a scrivere tumultuosamente e da sola a quattro anni, suo padre le aveva insegnato a nuotare e ad andare in bicicletta da bambina, da sola aveva imparato a strimpellare quando era nel gruppo scout, guidava veloce e sicura.
Aveva in mente, come tanti flash, le folli corse in Cinquecento sulla Via Olimpica per andare a trovare il suo grande amore a diciannove anni, la velocità della sua mano a prendere gli appunti durante le lezioni all'Università, i disegni che faceva, le canzoni che componeva, le sue poesie, i racconti, gli articoli...
Certo, digitando lentamente sul computer, ancora era in grado di produrre qualche testo, ma senza frequentare le tante biblioteche specializzate che conosceva da quando era una laureanda ventenne e appassionata, era diventato molto più difficile. Conosceva le linee d'autobus che l'avrebbero condotta al Germanico, all'École Francaise, a Palazzo Venezia, al Pontificio Istituto d'archeologia Cristiana, conosceva i parcheggi per auto dell'Americana, dell'Antonianum, dell'Università...
Adesso, mentre si sciacquava il viso guardandosi allo specchio nel bagno del laboratorio fotografico, si trovò a stupirsi della ridda di ricordi che si affollavano senza senso. Più normale era controllare il cerotto già pieno di sangue, la sua faccia pesta, la mano dolorante, che Nina muoveva per capire se fosse rotta o no. Non le sembrava. Aveva solo necessità di mettersi seduta, tranquilla: non era successo niente di grave. Le era andato bene.


II

Il riconoscimento

Elevanda ergo omnia et facili animo ferenda:
humanius est deridere vitam quam deplorare.
Adice quod de humano quoque genere melus meretur qui ridet illud quam qui luget
(Seneca, De tranquillitate animi, XV, 2)

(Dunque bisogna attenuare ogni contrarietà e sopportarla con animo ilare: è segno di maggiore umanità prendersi gioco delle vita, che piangere su di essa; il riso, essendo manifestazione di un animo pacato, lascia la porta aperta alla speranza, mentre il pianto si rivela stolto.)

sotto. Anche in questo caso si sbagliò: quando il tecnico la fece uscire dai suo loculo scomodo, era passata un'ora e un Un movimento continuo sotto l'occhio sinistro, anche mentre dormiva, le aveva detto sua madre. Nessun dolore, neppure un fastidio, per più di un mese, ininterrottamente.
Andando per tentativi, Nina era giunta alla visita da un neurologo d'ospedale. Ed erano state domande sulla sua anamnesi recente e remota, esami clinici, potenziali evocati...
Nina non era spaventata più di tanto, scocciata si, ma si sentiva bene e le seccava soltanto ritrovarsi spesso con lo specchietto in mano a sbirciare l'occhio che fibrillava senza requie. Aveva imparato ad avvertire gli attimi in cui il traballio era più o meno intenso e stupiva nel rendersi conto che si accorgeva della sua stranezza soltanto chi la fissava con grande intensità, a sua richiesta.
Chi l'amava era in realtà preoccupato: i suoi genitori, la sua amica, i parenti. Nessuno però aveva intenzione di comunicarle la paura che li invadeva. Che aspettassero una diagnosi precisa, o che volessero lasciarla tranquilla, certamente Nina non ne sapeva nulla, era ottimista di natura e si aspettava che la prossima occhiata al suo specchietto da borsa o ad uno specchio qualunque avrebbe potuto lanciarle il segnale che tutto era passato.
Poteva essere come accade a tanti. che un occhio batte per qualche minuto, forse qualche ora, poi si ferma. Non è grave, anzi è una sciocchezza.
Per questa Nina si seccava nel sentirsi criticata a causa dell'attuale sua "mania dello specchietto". Sarebbe stato meglio che sua madre si accorgesse che la figlia, malgrado l'occhio esagitato, andasse a Scuola in automobile, correggesse compiti in classe dei suoi alunni, preparasse il proprio esame di Paleografia Latina al Corso di Specializzazione nella Scuola dell'Archivio Segreto Vaticano. In più, Nina si trovava allora a vivere una storia d'amore intensa, nascosta e complicata, che forse, in effetti, non era lampante agli occhi attenti della mamma.
Forse, per tutto questo insieme di vicende così impegnative, che l'occhio non accennasse ancora a fermarsi, non le sembrava la cosa più importante: alunni e colleghe di studio non si accorgevano di niente, faceva, infatti, in modo di scrutarsi allo specchio solo quando nessuno poteva accorgersene.
L'oggetto del suo amore era invece al corrente dei disturbi e delle ricerche ad esso relative, ma il suo comportamento appariva meno ansioso e più sereno.
Certamente si trattava soltanto d'apparenza: fu una mascherata così efficace che Nina non ebbe a sospettare per lungo tempo di niente.
Questo le ronzava in testa mentre si accingeva a rientrare a casa col cerotto in fronte e il braccio dolorante.
La strada non era lunga, giusto un paio di fermate d'autobus, ma Nina da sola, non saliva più su un mezzo pubblico da mesi: era giovane, per un autista qualunque sarebbe stato strano che una ragazza non salisse o scendesse velocemente alla fermata. Quella sera, comunque, si diresse alla fermata più vicina, sedette in attesa dell'auto e si rese conto, provando, che il braccio si muoveva, con un po' di dolore ma le sarebbe stato utile per sorreggersi durante il percorso. Che fosse reduce da un infortunio lo dichiarava chiaramente quel suo cerotto sul sopracciglio: l'avrebbero aiutata senz'altro.

Il pomeriggio in cui, finalmente, andò ad effettuare la suo prima risonanza magnetica, la ragazza, che aveva ventisei anni, era un po' preoccupata.
L'ansia perché di li a poco avrebbe scoperto il suo misterioso problema, perché avrebbe sperimentato su di sé un macchinario sconosciuto e perché quella sera i suoi genitori, divorziati, avessero avuto la stessa voglia di aspettare con lei il verdetto del neurologo, la teneva in tensione altissima.
Fu l'attimo in cui la madre le infilò, quasi di soppiatto, in una tasca del vestito l'immaginetta di un santo a lei era ben noto, che proiettò Nina in una dimensione di stupore spaventato.
Era il taumaturgo cui s'erano rivolte con allarmata fiducia nei mesi a ridosso della prova inaspettata che aveva messo spalle al muro la sua mamma, lei, suo fratello, suo padre.
Sua madre era stata operata d'urgenza per un carcinoma al seno e le era stata effettuata una mastectomia radicale. Senza tempo per rendersi conto di quello che le stava capitando, giusto quello per farla angosciare su ciò che avrebbe significato la propria morte per i figli che avrebbe lasciato soli.
Nina si sarebbe dovuta laureare quell'estate, David, suo fratello, non aveva ancora vent'anni, suo padre Giorgio da tempo aveva un nuova compagna, un'altra casa, una vita distante.
Eppure, malgrado aver fatto slittare la data della discussione della seduta di laurea della ragazza, la vicenda sembrava ormai quasi superata.

Nina aveva imparato a convivere con la disperazione e con gli impegni nuovi e inaspettati della casa da mandare avanti. C'erano le bollette da pagare, la spesa da fare, lavare, cucinare, preparare gli ultimi due esami universitari e, soprattutto, andare a trovare in ospedale la sua bellissima, dolce e spaventata mamma Luisa.

Unico conforto sconfinato per Nina era Martina, la sua specialissima amica; durante quei mesi, infatti, l'ottimismo irrazionale che 1'aveva sempre sostenuta aveva avuto battute d'arresto frequenti e pericolose.

Non così doveva andare.
Il proprio ruolo allora le appariva insostituibile, indispensabile, impareggiabile; sarebbe stata in grado di affrontare qualsiasi ostacolo, avrebbe risolto tutto quello che era umanamente possibile risolvere.
Così si sentiva. A tratti. Quando non piombava nella disperazione più cupa che la sua vita avesse mai conosciuto.

Questi ricordi, piuttosto allucinati, vorticavano dietro i suoi occhi chiusi, stesa sul lettino dove, immobile, era radiografata in un turbinio di suoni ripetitivi, forti e ossessionanti.
Provava a trovare sul ritmo martellante una logica sensata: tot colpi in successione, breve pausa, poi ancora quei rumori, magari con vaga somiglianza alla base di una canzone.
Per molto tempo, superato lo stupore di sentirsi rinchiusa in un loculo fantascientifico, contò le serie di suoni, si scoprì a cercare le parole dei brani che i suoni le facevano venire in mente; ma non poteva muoversi né grattarsi, né spostare il collo fastidiosamente bloccato in una specie d'elmo di plastica dura.
Provò a contare i "botti", a ricordare i testi di vecchie poesie, rammentare preghiere antiche e familiari, però perdeva ben presto il controllo delle sue elencazioni; cercò pure semplicemente di contare per comprendere da quanto tempo stava là quarto, non i lunghi minuti che Nina aveva previsto.


III

La scoperta

Ma egli non si lasciò abbattere dallo scoraggiamento
e con arte ingegnosissima non mai prima d'allora tentata
costruì delle ali con penne legate insieme,
che attaccò con della cera al suo dorso e a quello del figlio
e così per la nuova via dell'aria poté sottrarsi all'insopportabile prigionia.
(Dalle Metamorfosi di Ovidio, VIII)


Decisamente stordita, Nina si trovò tra le braccia di sua madre; il padre le sorrideva sereno anche con gli occhi, lì accanto.
Era scoppiata in un pianto improvviso e irrefrenabile nella sala d'attesa spoglia e silenziosa. " Scusate, sono solo stanca...-fece soffiandosi il naso e poi chiese- Hanno detto niente i dottori?".
"Ci hanno detto che qualcosa si potrà vedere quando saranno sviluppate le lastre -rispose il padre- Stasera, comunque".
Nina tirò su col naso, si asciugò gli occhi e disse: "Visto che dobbiamo aspettare, vado a telefonare a Martina; le ho promesso che l'avrei chiamata appena finito".

Così usci dalla saletta per trovare un apparecchio all'interno della clinica e meditava sulla presenza di suo padre insieme a loro, quel pomeriggio. Si erano dati appuntamento ed incontrati lì, era normale il suo arrivo in un orario non puntuale rispetto a quanto stabilito: papà non abitava più nella casa sua, del fratello e della mamma, ma era stato allertato fin dagli albori di quella vicenda e Nina non aveva mai dubitato della suo vicinanza e del suo conforto.
Lo stesso afflato amoroso univa Nina e suo madre, sentimento che appariva sempre più dedizione totale. Non solo per il male oscuro della figlia, anche per David e per l'amore smisurato che ancora la faceva sentire la sposa di Giorgio, padre dei suoi bambini.
Era stata Luisa a telefonare a casa dell'ex marito per avere conforto ai propri dubbi, coraggio, serenità d'attesa.
Sentito il parere del neurologo, avevano deciso insieme di tenere per sé le ipotesi man mano formulate. Il medico aveva solo accennato alla probabilità che il caso di Nina fosse una forma benigna di sclerosi multipla.
Anni dopo, Luisa trovò l'occasione adatta per raccontare alla figlia la propria reazione di fronte al giovane medico che le comunicava la notizia.
Gli aveva chiesto di potersi sedere per superare il senso di svenimento che l'aveva presa, ma ascoltava con attenzione le parole del dottore. " Signora stia tranquilla, vuole telefonare a qualcuno? Comunque non si deve preoccupare così, non è detto. Con la risonanza magnetica si capirà più chiaramente".

Nina, che alla conversazione di sua madre col neurologo non aveva assistito, non si accorse nemmeno dell'atmosfera cupa che circolava negli occhi della mamma al volante. Era annoiata e le pareva che, in fondo, tutte quelle visite mediche per un occhio che fibrillava non erano per niente indispensabili.
Dunque, pensava, sfogliando la sua agenda, c'è l'esame da sostenere dopodomani, i test di grammatica dei ragazzi da riconsegnare domani, i capelli da lavare stasera...senz'altro era anche da prendere in considerazione il tirare su sua madre. Possibile, pensava, che si turbi ancora così profondamente quando passa qualche ora con papà?

Quando tornò nella sala d'attesa, i supi genitori avevano avuto qualche notizia in più: "Il referto sarà pronto tra due giorni -le stava dicendo mamma- per adesso, che è la cosa più importante, si può escludere si tratti di tumore al cervello".
Chi ci aveva mai pensato? si disse Nina mentre gli occhi le tornavano a riempirsi di lacrime, trattenute stavolta.
"Ci sono delle aree in cui manca la mielina, credo si chiami sindrome demielinizzante". Disse suo padre e aggiunse: "Sul referto ci sarà scritto meglio, poi bisognerà far leggere le lastre al tuo neurologo, così ci spiega che significa".
"E se a me non importasse che ho un occhio ballerino? Non mi fa male, ho una vista perfetta, e poi così perdo e vi faccio perdere un sacco di tempo..." comunicò ai suoi genitori.

Quella sala d'attesa le tornò in mente limpidissima mentre al Pronto Soccorso, nella notte di febbraio, attendeva il responso dell'ortopedico che leggeva e rileggeva le radiografie del suo braccio sinistro.
"C'è una frattura al polso. Domani mattina torni a farsi mettere il gesso".
"Mi scusi dottore, ma non si può fare adesso?"
"No -rispose il medico inamovibile- adesso le mettiamo una doccia, domattina avrà il gesso".


IV

Le prime cure

Maximum vivendi impedimentum est expectatio,
quae pendet ex crastino, perdit hodiernum
(Seneca, De brevitate vitae, IX, 1)

(Chi è tutto proteso, ansiosamente, verso il domani, nell'attesa non vive.)


Il neurologo le aveva prescritto una serie di flebo al cortisone che, per fortuna, avrebbero potuto praticarle a casa sua, non in ospedale, il suo giovane zio medico e la moglie, medico anche lei.
Nina aspettava ogni giorno serenamente l'arrivo di chi le avrebbe applicato la flebo e sarebbe rimasto a farle compagnia. Le faceva piacere pensare che l'ora trascorsa con lei non dipendesse solo dal tempo sufficiente per controllare che il liquido scendesse con regolarità nella vena e non avvenissero effetti collaterali indesiderati.
Cosi, sdraiata sul letto, Nina chiacchierava con il "medico di turno" o con la cuginetta di pochi anni che ogni tanto accompagnava il genitore.
Ilaria non s'impressionava nel vedere la cugina grande "intubata", anzi era lei a preparare il materiale che sarebbe servito per iniettarle il medicinale, consigliava il tipo di ago da usare, possibilmente una butterfly, diceva.
La cosa più strana che imparò a quel tempo fu che, certo per il cortisone assunto, il suo carattere tendeva a modificarsi. Non più depressione profonda, anzi una malsana allegria, una voglia improvvisa di fare, una smisurata fiducia nelle proprie possibilità, come le accadeva anni prima.
Era stata la ragazza che trovava infallibilmente il modo di fare innamorare di sé l'oggetto dei propri desideri, andava bene a scuola senza sforzo, partecipava agli scavi archeologici con competenza e capacità, scriveva con passione racconti, poesie, testi e musiche di canzoni, superava facilmente esami universitari e concorsi ...
Ora quindi non le sembrava affatto strano prepararsi a sostenere un esame importante come quello di paleografia alla Scuola Vaticana studiando tra una flebo e l'altra, tra un esagerato innalzamento di pressione e l'altro, nella ormai nota fibrillazione continua dei suo occhio; né le appariva inopportuno discutere animatamente col suo amore, o preparare i testi delle verifiche che avrebbero svolto i suoi alunni a scuola.

Chi ha tempo non aspetti tempo, diceva un antico proverbio, quello che d'ora in poi sarebbe stato il suo preferito, compreso, utilizzato.
Significava che adesso Nina aveva la capacità di sfruttare il proprio tempo, era abbastanza in forma per portare avanti i propri progetti, gestire la propria storia.
Domani non si sapeva cosa avrebbe potuto succedere: rimandare ad un futuro imprecisato qualcosa che era possibile affrontare subito non le sarebbe mai capitato, soprattutto d'ora in poi.
Le succedeva, attualmente, di non fare i conti con le proprie effettive capacità: magari guidava così velocemente da aver bisogno di frenare all'improvviso o svoltare ad un incrocio rapidamente.
Certo, non dimenticava mai di segnalare i bruschi movimenti per tempo e non si turbava nel sentire i clacson suonare a causa sua, ma sarebbe arrivato il momento, ora lo sapeva, in cui circolare tra semafori e motorini sarebbe- stato per Nina intollerabile.
Quando arrivava a cosa al termine di una gimcana automobilistica, conclusa una giornata di scuola, sentiva le gambe come molli, il collo bagnato di sudore, la soddisfazione per aver indicato sul vetro posteriore della macchina che era alla guida un principiante.
Eppure quella P non stava a significare veramente che guidava qualcuno che aveva preso da poco la patente, Nina circolava senza problemi da quando aveva diciotto anni, senza aver causato incidenti né averne avuti da evitare. Quella lettera aveva deciso di disegnarla su un foglio di carta ed attaccarla sul vetro per darsi coraggio, per sentire di aver fatto il meglio che si potesse fare.
"Sono una Pippa e ve lo comunico, così sto più tranquilla" era il reale significato di quel foglio.


V
La mutazione

Ai momenti indimenticabili di una vita appartengono quelli, rari,
in cui uno si vede come dal di fuori e riconosce improvvisamente in sé dei tratti
che prima non aveva, o che almeno gli erano ignoti:
con un sussulto e un leggero spavento ci si avvede di non essere quell'entità sempre uguale,
ben caratterizzata ed eterna quale per lo più ci sentiamo;
ridestati per un momento da quel sogno dolcemente ingannatore,
ci si vede mutati, accresciuti o diminuiti, potenziati o immiseriti;
con spavento o con gioia per un momento ci vediamo e ci sentiamo immersi
nel flusso infinito del divenire, del mutarsi, della fugacità che divora senza posa;
cose ben note, è vero, ma da cui escludiamo di solito noi stessi e forse alcuni dei nostri ideali.
(H. Hesse, Ricordo di Hans)


Aveva ormai un braccio al collo, ma si sentiva cosi carica che non c'era niente nella sua giornata che avesse difficoltà a fare.
Merito, o colpa, delle tre punture lombari di cortisone che il suo attuale neurologo le aveva praticato nel Day Hospital di una clinica molto lussuosa e quindi, ovviamente, cara.
Dormiva pochissimo. Per questo dopo cena, quando i suoi andavano a letto, si trasferiva in salotto, dove poteva leggere senza timore di disturbare il sonno di Fiorenzo, accendere il televisore, raggiungere il bagno, la cucina, fumare.
Le bastava solo portare con sé un plaid, una torcetta per leggere o spostarsi per la casa addormentata senza accendere le luci.
Qualche volta riusciva a dormire un paio d'ore ma, se non era possibile, Nina aveva notato che non succedeva niente di disastroso.
Al mattino, salutati i suoi che andavano a scuola, cominciava a riprendere possesso delle proprie vecchie abitudini, quelle che disperava di riuscire a riottenere mai più.
Delle più idiote: fare i piatti della cena prima, lavare qualche panno a mano, visionare quanto videoregistrato ultimamente ...
Alle via via più importanti: pensare al prossimo articolo da pubblicare su Oriente Cristiano, la rivista scientifica in cui, da qualche anno, trovava spazio iI frutto del suo studio; occuparsi di trovare la strada giusta per farsi "comandare" all'Università l'anno seguente, per non essere costretta a lavorare in classe con alunni vivaci e poco educati, un lavoro ormai per lei pesantissimo vista la sua patologia che le rendeva difficile correggere temi, scrivere sul registro, accompagnare i ragazzi alle gite; scegliere le sue poesie migliori da presentare ad un paio di concorsi, trovati casualmente sulla prima pagina di Repubblica e su Internet.

La scelta si era caricata di rivisitazioni molto intense di ricordi.
Ogni testo le raccontava un sentimento, un amore, una decisione. Di tutte le sue poesie ricordava la gestazione e la soddisfazione al termine.
Tutte le "brutte copie" Nina conservava da sempre, sia che fossero liriche, lettere o racconti. Ora si beava nel costatare che aveva mantenuto cose scritte dai sei anni in poi...
Bene, tra le poesie che decise di inviare ce n'erano di scritte a sedici anni, a venti, a venticinque, a trenta, a trentacinque, alla sua attuale età, ben trentasette anni, rifletteva.
Rifletté cosi sui cambiamenti avvenuti nel corso della propria esistenza, quelli voluti e quelli involontari. Le servì anche questa meditazione per decidere le brevi note biografiche da allegare alla sua scelta di liriche da spedire.

Mi chiamo Anna Torcacci, aveva digitato sul computer, e sono nata a Roma il 14 aprile 1963; il mio indirizzo è...Laureata in archeologia, ora insegno lettere part time in una Scuola Media della mia città, dove vivo con marito e figlia adottiva.
Una convivenza indesiderata è quella con la sclerosi multipla che mi accompagna della metà degli anni Ottanta.

C'era tutto, pensava. Molto sinteticamente, ma non mancava niente per lo scopo a cui serviva.
Eppure Nina sapeva cosa si nascondesse dietro ogni parola, conosceva gli anni di studio, i concorsi, gli incontri con i Servizi Sociali, la presa di coscienza relativa al suo male.

Era un po' come quando guardava le sue foto conservate con passione, o le sua agende, o i suoi appunti. Non buttava via quasi mai niente. Talvolta era una disperazione l'accatastarsi di tanto materiale inutile, eppure per Nina era qualcosa di indispensabile da quando era ragazzina, ricordò. Su un suo scritto si leggeva che, se Nina fosse diventata una scrittrice famosa, ci sarebbero state da pubblicare delle cose che l'autrice aveva scritto quando aveva sei anni, cinque anni, addirittura quattro anni, una lettera a Babbo Natale in scrittura istintivamente bustrofedica, perché aveva imparato a scrivere da sola, guardando insegne, vetrine, manifesti, copertine...

Quando in una lettera lesse: Gent. Siq. Torcaci Anna, abbiamo esaminato la sua raccolta di poesie che Lei ci ha inviato in relazione all'iniziativa editoriale Poesia 2001. Ne abbiamo apprezzato i contenuti e le originali modalità espressive capaci di comunicare sentimenti e sensazioni. Stando così le cose ci congratuliamo con Lei nel comunicarle il nostro parere favorevole alla pubblicazione del suo libro che sarà pubblicato nella collana Poeti italiani Contemporanei, entro dodici mesi dalla stipula dell'accordo. In alleqato, troverà il suo Contratto di Edizione, in doppia copia, già firmata dall'Editore si senti volare.
In quelle poesie era condensata tutta la sua vita, così le sembrava; e non era importante che il suo volumetto "In itinere" venisse pubblicato.

Questi percorsi le erano consentiti dalla sua attuale inattività lavorativa. Da quando aveva iniziato la cura di cortisone, il neurologo le aveva intimato di astenersi dal lavoro, a scuola, soprattutto. Così le giornate si erano allungate e riempite di tutto quello che normalmente Nina doveva evitare.
O anche voleva, in certi casi.
Adesso aveva possibilità fisiche, nessun tranquillante, nessuna medicina oltre al solito interferone trisettimanale.
La frattura al polso, la bronchite, la suppurazione di un versamento al fondoschiena e l'insonnia in altri momenti sarebbero stati davvero insopportabili, adesso invece no, non per lei.
Appena rimosso il gesso avrebbe ripreso a guidare, ne era certa.
Anche se sua madre avrebbe avuto paura e sua figlia sembrava quasi non credere alla realtà delle sue intenzioni.
Suo marito, invece, già aveva cominciato ad accompagnarla a riprendere contatto con la guida: due anni di inattività e l'auto nuova avevano bisogno di un po' di esercizio preventivo. Però saper usare la macchina, pensava Nina, non si può dimenticare. Vorrà dire che, prossimamente, avrà un senso diverso, perché più pertinente, mostrare affisso sul vetro posteriore dell'auto il foglio con su una grossa P.
Del resto, sul vetro anteriore era ormai esposto il cartellino per gli invalidi...


VI

Lo scacco

La realtà è ciò di cui non si può mai, in alcuna circostanza,
essere contenti, che e non si deve mai, in nessun caso, adorare e venerare, perché rappresenta il caso, lo scarto della vita.
E questa sordida, sempre deludente e squallida realtà non è possibile mutarla
se non rinnegandola e mostrando che siamo più forti di essa.
(H. Hesse, Breve cenno biografico)


Fu uno shock rendersi conto che il tremore si era trasmesso alla bocca. Sotto il labbro, fino al collo, sotto il naso, anzi a collegare la narice alle labbra.
Il lato era sempre lo stesso, la frequenza ininterrotta anche. Ma gli effetti risultavano a Nina disastrosi perché sarebbe sembrata perennemente ghignante.
Ghignante davanti al monsignore che la stava per interrogare, agli alunni che magari bisognava redarguire o a cui, comunque, Nina doveva spiegare argomenti seri.

La sua preside, anni dopo, dichiarò che non si notava per niente. Lei non l'aveva notato, Nina l'aveva sempre presente.
Del resto suor Assunta, la preside, ere stata quella che aveva definito la sua una gravidanza durata 24 ore.

Da quando lei e Fiorenzo avevano deciso di sposarsi, si erano detti che avrebbero avuto un figlio; che fosse naturale o adottato non avrebbe avuto importanza. Fiorenzo era stato messo al corrente dell'eventualità che una gravidanza avrebbe potuto far peggiorare la salute della sua sposa. "Durante l'attesa no, anzi, sarebbe stata meglio, dopo il parto invece sarebbe peggiorata, una ricaduta magari pesante, ma, evitando l'allattamento al seno e con una cura impegnativa, sarebbe tornata a posto...". Cosi si era espresso il
suo neurologo il pomeriggio in cui Nina, lasciata la scuola dopo una riunione, era stata allo studio per chiedere dettagliate informazioni su cosa sarebbe realmente poi avvenuto avendo preso ormai la decisione di affrontare una gravidanza.
Aveva con sé un registratorino che teneva acceso in una tasca del cappotto. Serviva per far sentire le parole del neurologo a Fiorenzo che non aveva potuto essere presente alla "visita", dato che aveva una riunione a scuola in orario coincidente con l'appuntamento.
La cassetta Nina l'aveva conservata intonsa molti anni, soltanto adesso aveva deciso di usarla come cassetta su cui incidere canzoni.

La decisione l'avevano comunque presa, era quella di provare ad affrontare una gravidanza e lei non aveva paura di affrontare il parto.
Insieme avevano preso la decisione di smettere di conteggiare i giorni presumibilmente fertili, misurando la temperatura basale o controllando il tipo di secrezioni vaginali ogni mattina.
Quando smisero di tenere tutti questi conti, Nina rimase incinta.
Eppure nei quattro anni precedenti, escludendo il primo di matrimonio in cui avevano evitato che potesse accadere, i mesi da evitare a causa di cure e i mesi successivi ad essi per attendere l'avvenuta disintossicazione, non era successo nulla, malgrado lo desiderassero moltissimo.

Tanto, dunque, le sembrava impossibile, che ripeté, due volte i test acquistati in farmacia, gli stessi che tante volte avevano infranto le proprie aspettative, e quando fu convinta che questa volta era realmente in attesa, decise di fare la prova coi prelievo dei sangue. La conferma venne e quando Nina si recò col marito a ritirare il risultato delle analisi, ruppe in un pianto irrefrenabile. L'infermiera, stupita da tante lacrime, le disse che era la prima volta che vedeva una donna piangere non perché era disperata del fatto di stare per avere un figlio, ma perché felice come una Pasqua. In realtà le era capitato di vedere lì molte ragazze che piangevano perché quel figlio non lo volevano: spesso erano ragazze molto giovani che avrebbero dovuto interrompere la loro gravidanza.
Nina no. Era felicissima, non stava a pensare che per lei sarebbe stata un'ulteriore prova. Prova ancore più complicata dal fatto che ebbe subito delle minacce d'aborto per cui dovette, su consiglio del ginecologo, mettersi a letto, non andare a Scuola e quindi aspettare con calma che le cose si fossero rimesse in regola.
Dunque non poteva lavorare, alzarsi neanche per mangiare e cosi via, tutte cose che fece con molta precisione, molta dedizione.
La sera quando pregavano, come ormai succedeva dall'epoca dei matrimonio, Nina pretese che la mano di Fiorenzo fosse posata non più sulla testa ma sulla pancia di Nina, perché la preghiera doveva essere destinata anche alla creatura che stava nascostamente crescendo.
La gravidanza a rischio purtroppo si era conclusa tragicamente con il doversi sottoporre con urgenza a "revisione", cioè raschiamento. Questo successe i primi di gennaio, dopo una straziante ultima ecografia che testimoniò, senza ombra di dubbio, come il feto ormai fosse privo di segnali vitali.
Durante l'esame Nina, fino all'ultimo, scrutò nel monitor muto. Cercava la conferma alle recentissime, di due giorni prima, analisi dei sangue, che il bambino stava crescendo, e taceva aspettando di avvertire il suono di quei battiti cardiaci che però non si sentirono mai.
Non c'era stata alcuna emorragia, eppure il ginecologo, lo stesso che le aveva fatto la prima visita da donna incinta e le aveva fornito una data presumibile per il prossimo parto, le disse che era meglio intervenire con la "revisione" prima che l'emorragia si verificasse.

Dopo il raschiamento Nina non poté riprendere servizio a Scuola, si prese un mese d'interruzione dal servizio per motivi di salute. Non le era possibile riprendere servizio: la depressione, la rabbia, la disperazione per quello che le era accaduto, e poi l'astenia causata dall'intervento, glielo impedivano realmente.
Questo il motivo per cui la suora si permise di dire quelle frase infelicissima: la sua era stata una gravidanza durata 24 ore.
In quelle fittizie ventiquattr'ore c'era stata una vita, la vita di una creatura che non si sapeva neanche se era un maschio o una femmina, ma già aveva il nome, sia che fosse nato maschio che femmina, che già si sapeva in che momento dell'anno sarebbe nata, a cui già era stata destinata una stanza.
Già Nina aveva deciso di disdire la camera per la vacanza perché in alta montagna, con il pancione di quasi nove mesi, avrebbe avuto difficoltà ad andare. È vero che sua madre le aveva detto di non telefonare subito perché bisognava aspettare di vedere come sarebbero procedute le cose. Però per Nina le cose sarebbero andate tranquille, non conosceva nessuno che aveva perso un bambino senza un motivo.

Più avanti negli anni le sarebbe stato detto che la prima gravidanza di qualunque donna poteva essere a rischio e che poteva succedere come ere successo a lei. Però per Nina, in quell'inverno, questa era una cosa fantascientifica: la creatura c'era, l'amore enorme per lei da parte sua e di suo marito pure e quindi non era affatto contemplata questa possibilità che invece poi ci fu e fu la cosa più straziante che lei avesse mai conosciuto: era una cosa in più, nuova, del tutto ignota.
Stava sulla barella che l'avrebbe condotta nella Sala Parto, assurdo ma vero, per fare la "revisione" e piangeva disperata.
Voleva voltarsi indietro, guardare la faccia del marito, guardare la faccia della madre, che pure era lì, ma glielo impedirono, chiusero la porta del corridoio, poi della Sala Parto e le praticarono l'anestesia.
Era il reparto Ostetricia del Gemelli, quello accanto al Day Hospital dei reparto di Neurologia, dove Nina spesso si recava per controlli, quello in cui aveva deciso che sarebbe diventata madre.
Quando si svegliò le parve di stare bene, ma quando tornò a casa e vide le stesse cose che aveva lasciato prima del ricovero, come il suo pigiama, il libro che stava leggendo..., ebbe un ulteriore crollo di nervi che lasciò Fiorenzo senza fiato.


VII
Ti posso chiamare mamma?

Hai mutato il mio lamento in danza,
l'abito di lutto in un vestito da festa.
(Salmo 30,12)

Allo scadere dei tre anni di matrimonio, Nina e Fiorenzo cominciarono le pratiche per ottenere l'idoneità all'adozione.
Furono analisi che attestarono la buona salute dei coniugi adottanti, quindi sedute con una psicologa, poi con un'assistente sociale, sempre in separata sede.
Alle risposte di Nina che raccontava la propria infanzia felice, nonostante la separazione dei suoi genitori da quando aveva tredici anni, ma il contatto sempre strettissimo col padre, la psicologa si fece più stringente. Ma Nina non ebbe paura: ad un bambino accolto in casa sua poteva, al massimo, offrire la stranezza di due nonni che vivevano in case diverse, però si stimavano e si volevano bene comunque.

Certo, essersi sottoposta ad un chek up medico come quello che lei e suo marito avevano affrontato, aveva significato leggere dai vari referti che i loro cuori e polmoni funzionavano bene, non c'erano malattie contagiose in atto, né, malattie mentali, che la loro vista e il loro udito erano a posto...
Fortuna che Nina si era informata appena saputo che la sua "malattia demielinizzante" (ancora non ne conosceva il nome truce "sclerosi multipla") non si trasmetteva da madre in figlio né era comunque contagiosa, altrimenti avrebbe meditato se era giusto dichiararlo in quella sede.
Raccontarlo allora non era il caso, meditare seriamente se invece fosse giusto di diventare madre con le proprie ricorrenti "crisi demielinizzanti", fu oggetto di meditazioni sue e dei suoi famigliari.
Avrebbe potuto garantire abbastanza forza e salute per crescere un bambino? Sarebbe stata in grado di accettare qualunque bambino le avessero affidato, anche gravemente malato?
Sicuramente sarebbe stato un italiano perché il giudice onorario, conoscendo l'età del più grande della sua coppia, cinquant'anni, li aveva sconsigliati di portare in Italia un bambino straniero di dieci anni. Troppa difficoltà nell'inserirsi per problemi di lingua e quindi scuola, religione, colore...In verità si era trattato di una violenza: era stata loro fatta firmare una carta in cui si rinunciava a qualunque adozione internazionale, allora e per sempre.
Le Autorità erano al corrente dei tanti neonati stranieri fatti entrare in Italia di straforo, magari comprati a madri indigenti e consenzienti, oppure strappati a madri indifese.
Comprare legalmente un bambino, pagando anche trenta milioni tra viaggio, traduzioni, quote associative a gruppi di collegamento ad orfanotrofi extracomunitari era naturalmente lecito.
Bisognava però essere abbienti, poter partire nel momento in cui si era chiamati, e quindi lasciare il proprio lavoro per almeno un mese, il tempo per conoscere il minore, avviare e concludere le pratiche di rito.
Ciò che più dava da pensare alla giudice dei Tribunale dei Minori erano i trentatré anni di Nina: entro i quarant'anni avrebbe potuto aspirare ad adottare un neonato, suo marito no. Poteva venirle in mente un progetto illegale a riguardo.
Ma la legge parlava chiaro, Nina e suo marito lo sapevano bene.
Per questo, quando arrivò la chiamata che li invitava a presentarsi in Tribunale, sapevano già che sarebbe stato per proporre loro un/a decenne italiano/a.

Nei locali del Tribunale, convocata per lo stesso motivo, c'era un'altra coppia, forse entrambi cinquantenni, cui fu sottoposta la vicenda di una bambina di cui non fu detto altro che il nome proprio, l'età e la difficoltà di adozione.
Non era detto che potesse essere adottata. Magari sarebbe stata solo collocata provvisoriamente nella famiglia tra le due che se la sarebbe sentita.
L'altra coppia, sentito ciò, si tirò indietro, un'altra coppia, seppero poi, non si era neppure presentata. Rimanevano Nina e Fiorenzo.

Fu l'entusiasmo di Nina la molla che fece andare avanti la vicenda.
Si sedettero davanti al giudice onorario e cominciarono a chiedere maggiori informazioni su Monica, la bambina che si preparavano ad accogliere, e non sapevano neanche per quanto tempo.
Stava, attualmente, a Torvajanica presso una famiglia, faceva la quinta elementare e, soprattutto, vedeva sua madre ogni quindici giorni alla presenza di un'assistente sociale.
"Qual è la sua storia?" provarono a chiedere. Non erano tenuti a sapere di più, fu risposto loro.
"Quando potremo, almeno, conoscerla?". "Se siete davvero convinti, vi convocheremo il diciotto del mese."
"Almeno, posso sapere se è bionda o bruna, se ha i capelli corti o lunghi, se è alta o bassa? So che compie undici anni il diciotto febbraio, cosi, quando ci conosciamo, posso portarle un regalino adatto a lei".

Nina, uscendo dello studio di un nuovo neurologo cui si era rivolta perché convinta che il proprio medico non la stesse curando al meglio, niente affatto preoccupata che la nuova cura necessitasse di una puntura al giorno, entrò in molti negozi alla ricerca di un dono che fosse adatto alla bambina che stavano per conoscere.
Chiese il prezzo di molti orecchini (e non sapeva se avesse i buchi), fermagli per capelli (e non sapeva se li usasse), sciarpe... Era bruna, il rosa le sarebbe stato bene...

La mattina del diciotto febbraio conobbero solo l'assistente sociale e la psicologa che si occupavano della bambina. Monica aveva la febbre, sarebbe potuta uscire solo tra una settimana.
"Un'altra settimana..." furono le uniche parole che riuscì a dire Nina, avvilita che quell'incontro fosse stato inaspettatamente rimandato.
Il pacchetto con la sciarpa rosa fu affidato alle mani di Anita, la psicologa che avrebbe potuto consegnarla a destinazione prima del prossimo appuntamento.
Quando finalmente riuscirono a vederla, scoprirono che Monica era piccolissima, stava abbarbicata sulle ginocchia della psicologa, parlava poco e sottovoce.
Durante quell'ora trascorsa in una stanza dei cupissimo Tribunale per i Minorenni, Nina riuscì a stento a trattenere le lacrime che le avevano invaso gli occhi dall'attimo in cui le era stata presentata la ragazzina.
Questa era la bambina. Queste le sue passioni, stando alle parole di chi la conosceva, queste le sue paure.
Ad un certo punto, Monica scese dalle gambe di Anita e si piazzò in piedi di fronte a Nina, poi di fronte a Fiorenzo e chiacchierava, rideva, domandava...

"Vi potrete vedere la prossima settimana in Istituto" fu la decisione (che a Nina parve spietata) della psicologa.

Già, tolta dalla famiglia che l'ospitava, Monica era stata inserita nell'Istituto delle Suore Francescane di Lavinio, vicino Torvajanica, paese in cui era la sua Scuola Elementare.
Sapevano che Monica non voleva andarci, non voleva passare altri mesi in un Istituto.
Le era bastato l'Istituto delle Suore Calasanziane a Roma, dove era stata accolta quando le Forze dell'Ordine l'avevano, nottetempo, strappata alla sua abitazione. Aveva otto anni.
Del resto i Servizi avevano deciso di evitare alla bambina una nuova, e forse solo momentanea, famiglia.
A nove anni c'era stata una coppia con un figlio universitario e l'intenzione di adottarla; a dieci anni un'altra famiglia, che si era dichiarata disponibile solo nell'attesa che il Tribunale trovasse una casa "giusta" per Monica.
Finalmente si riteneva che la casa adatta fosse stata trovata, però non si voleva creare alla piccola un nuovo trauma, quindi ecco un nuovo Istituto dove parcheggiare la ragazzina scomoda e problematica.
L'Assistente Sociale poteva continuare ad assistere alle visite della madre, la Psicologa a curarla, Nina e Fiorenzo iniziare a farsi conoscere. Una telefonata al giorno, una visita a settimana.

La mattina del primo marzo, una domenica, studiata la strada da percorrere, fatta l'iniezione giornaliera, andarono a trovare la bambina. Poteva uscire con loro dall'Istituto purché per l'ora di cena la riportassero.
Nina conosceva molto bene quella zona. Le sue estati di bambina le aveva trascorse sempre nella villa di famiglia lì vicino. Seppe dunque indicare al marito i luoghi più indicati per stare insieme e chiacchierare con la ragazzina.

La prima tappa fu un giardino. Fiorenzo si era un momento allontanato, Nina sedeva sull'erba di fronte a Monica e le sorrideva. Monica le chiese: "Siete voi la famiglia definitiva?" Un pugno nello stomaco. Nina annui e sorrise. "Ti posso chiamare mamma?" Una scarica di pugni allo stomaco: le stava succedendo realmente.



VIII

Il riconoscimento

Ma di una cosa ti prego: non mollare.
Sii vigile, attento fedele alle aspettative di quando eravamo ragazzi.
Non temere di essere patetico, non temere di andare controcorrente,
e il primo nemico da battere è la mediocrità.
(Diego Cugia, Alcatraz)


Fumare si, anche se non sarebbe il caso. Ma sfilare una sigaretta dal pacchetto, accenderla, inspirare e soffiare fuori il fumo era une delle operazioni "di fino" che ancora non aveva difficoltà a compiere. Forse perché era un'azione che faceva una dozzina di volte al giorno, mentre cucire, ad esempio, le accadeva di rado ....Eppure aveva cominciato a comprarsi le sigarette a vent'anni, a scrivere da bambina, a usare le posate, il bicchiere o la tazza da bambina ancora più piccola.

Scrivere a macchina o usare il computer, sfogliare libri, prendere appunti o mettere una firma per Nina ormai era un'impresa talmente faticosa che al termine di un'unica di queste imprese (per cui, dopo molti tentativi falliti, aveva trovato la posizione più adatta e comoda) si sentiva sfinita.
E incazzata.

Possibile che io abbia seguito corsi di paleografia e, soprattutto, fatto esercitazioni scritte sull'argomento? Che io abbia scavato e, soprattutto, disegnato piante di strato relative allo scavo archeologico? Che io abbia pedalato in bicicletta fino a casa di amici in estate e, soprattutto, tra una puntura e l'altra?

Possibile che già allora apparissero i sintomi del mio male, si chiedeva Nina.
Scomparivano senza lasciare tracce, le sembrava.
La sua risonanza magnetica, però, somigliava sempre più a una carta geografica, le disse un giorno scherzando un neurologo che la stava visionando.
Forse quel giorno ci avrà riso anche lei.
C'erano stati, e c'erano tuttora, periodi in cui il suo umorismo riemergeva prepotente, non a caso il suo totem da scout ragazzina era Bruco comico.
Scegliere il nome di un animale ed associarvi l'aggettivo che più fosse intonato all'indole di un/a ragazzo/a richiedeva attenzione sensibile da parte dei capo reparto, ma era il nome assegnato una volta e per sempre...per questo sua figlia si chiamava ormai Marmotta suscettibile. Perfetto per lei, come perfetto era sembrato a tutti, il nome scelto per Nina undicenne.

La sua voglia di scherzare riappariva anche adesso e, talvolta, in circostanze poco opportune. Ma Nina aspettava sempre fiduciosa la comparsa delle proprie risate, a tavola, in macchina, in chiesa, a letto...E le ronzava in testa la frase: "sarà una risata che vi seppellirà". Poi però si fece sempre più insistente quest'altra, certo meno cupa: "gente allegra il Ciel l'aiuta".
(anonimi)
Si riconosceva, le bastava.


Roma 7 aprile 2001


M. Cecilia Cartocci

Edited by Ce lia - 5/5/2014, 10:24
view post Posted: 4/5/2014, 12:04     lettera di agosto 1982 - Gara di narrativa di maggio 2014 !
Nella prima pagina c'è solo scritto "Sei splendido," non manca nulla, un foglio così fa pensare al destinatario!
view post Posted: 4/5/2014, 08:23     lettera di agosto 1982 - Gara di narrativa di maggio 2014 !
Sei splendido,





























Non basterà a rimetterti in armonia con la tukh ma deve poter servire, il mio amore, come un'illusione e una certezza, perché è come una lunghissima poesia, più o meno bella o affascinante, che prende forma col tempo e con i giorni si fa più completo.
Come stai?

Mi piacerebbe saperti sereno o almeno un pizzico emozionato per la tua esistenza, che è quella di una persona davvero meravigliosa.
Quello che accade, questo ritmo così poco esaltante che ti tiene da un pò ha un'importanza relativa, sai, perché tu resti sempre Filippo e in questo nome si racchiude tutto quello che sei, tutto quello che dai.
Mi piaci profondamente. Profondamente.

Ascolta, sono esattamente sulla spiaggia e credo che le mie cugine stiano chiacchierando, con tanto di radio accesa, di madri che gridano ai figli di uscire dall'acqua, di ragazzini che giovano pallone.

Eppure mi sento così perfettamente estranea, isolata, elevata.
È che mi vedo tanto diversa da questa atmosfera triste, tutto sommato!
Io sto bene, comunque, e sono in coinvolgente comunicativa con gli elementi: il sole che mi trafigge continuamente, il rumore dell'acqua che credo di avvertire solo io con la mia altissima concentrazione, in questo istante.

Altra sensazione violenta, è quella olfattiva, c'è un odore indefinibile che è un misto di salsedine, di caldo che sale filtrato attraverso quello della mia pelle, vagamente alterato dall'olio solare.
Bellissimo! Mi sembra di piacermi più che mai. Mi sento bella stamattina. Ed è fondamentale piacersi nella vita. Tu lo sai meglio di me, amore mio.
A presto, tua.
view post Posted: 3/5/2014, 12:40     Sotto la cenere - Ce lia
Conosco le fiamme
di un amore sfinito.

Restano nascoste
finché non ravvivate
soffiando o smuovendo
con un bastone simile
a quello usato
per accenderlo all’inizio.

È cenere bollente,
sotto c’è sempre un fuoco
forse da provocare
perché torni a guizzare.
view post Posted: 3/5/2014, 09:52     Sotto la cenere - Poesia
Grazie per aver letto e commentato questa mia poesia
view post Posted: 2/5/2014, 08:48     +1Sotto la cenere - Poesia
Conosco le fiamme
di un amore sfinito.

Restano nascoste
finché non ravvivate
soffiando o smuovendo
con un bastone simile
a quello usato
per accenderlo all’inizio.

È cenere bollente,
sotto c’è sempre un fuoco
forse da provocare
perché torni a guizzare. :o:
938 replies since 18/10/2009